Dopo la battuta d’arresto registrata nel 2020 a causa della pandemia, il mercato americano nel 2021 è ripartito di slancio, totalizzando un valore record alle importazioni di 7,1 miliardi di dollari, in aumento del 26% sull’anno precedente e del 14% sul 2019. Indicatori più ristretti sul fronte volume, dove la crescita si è limitata al +13% sia rispetto al 2020 (14 milioni di ettolitri) sia rispetto al pre-Covid.
Si è recuperato quindi soprattutto in valore nell’ultimo anno, e questo sostanzialmente grazie al rientro sul mercato delle tipologie di vino più pregiate: dallo Champagne (arrivato per la prima volta sopra il miliardo di dollari, quindi recuperando con gli interessi quanto perso nel 2020) ai rossi e rosati francesi, che tra l’altro in parte del 2020 erano ancora sotto la scure delle tariffe decise dall’amministrazione Trump. Ma sono saliti anche tutti quei vini italiani premium e superpremium che più di altri avevano subito gli effetti delle chiusure della ristorazione e dei locali: dai Brunello ai Chianti, passando per Barolo e Amarone.
Per il nostro Paese, l’andamento è stato particolarmente positivo, soprattutto per il segmento spumante, che ha allargato di un terzo il proprio valore (a 600 milioni di dollari) e addirittura del 26% rispetto al pre-Covid. Per i vini fermi, rossi e bianchi viaggiano tra +8-9% valore sul 2020, con migliore performance dei bianchi sul 2019: +10% contro il +6% dei rossi, che risultano a tutti gli effetti i prodotti che ancora necessitano di tempo per ritrovare tutta l’ampiezza del mercato erosa dalla pandemia.
Il contesto generale però va guardato più nel dettaglio, per capire se nel prossimo futuro – al di là degli scombussolamenti verso il basso e verso l’alto generati dalla pandemia – i prodotti italiani possono ambire a crescere ancora e soprattutto con quale formula.
Se scorporiamo il volume dello spumante dal totale importato (vini fermi e spumanti, escludendo gli sfusi), la crescita del mercato nel decennio misurata in Cagr si smorza totalmente: da +2% a zero.
Sul lato valore, si scende da +4% a +2%, e se dal conto escludiamo anche i vini di Provenza e i neozelandesi, che per ampiezza ormai raggiunta sono componenti fondamentali del valore di mercato, la performance generale scende sotto +1%, a +0,7% per la precisione. E’ di tutta evidenza come la spinta data alle importazioni sia arrivata negli ultimi anni da solo tre referenze: spumante, Rosé di Provenza e Sauvignon Blanc neozelandese.
Se sul primo, grazie al Prosecco, siamo ormai protagonisti indiscussi, detenendo un terzo del valore di mercato e il 60% del volume (qui la partita è quella di far crescere il valore quando i volumi si stabilizzeranno), sugli altri due pilastri le criticità non mancano. Sul versante rosato, pur crescendo, gli italiani praticamente non esistono come entità categoriale (42 milioni di dollari di valore su un mercato che vale 7 volte tanto), nonostante il nostro Paese vanti areali storicamente vocati alla produzione di vino rosato.
Sul bianco, invece, il discorso si complica, perché la crescita esponenziale del Sauvignon Blanc neozelandese non è stata affatto neutra per il Pinot grigio italiano, che con poco meno di 600 milioni di dollari fa circa l’80% del valore generato dai nostri bianchi in Usa. Il divario che solo dieci anni fa separava i due prodotti è stato praticamente ridotto del 60%, a poco meno di 130 milioni di dollari. Il valore imposto dal prodotto neozelandese ha come calamitato tutto l’upgrade del periodo della premiumization, di fatto schiacciando il Pinot grigio in una banda di mezzo miliardo di dollari, da cui non si è usciti nemmeno l’anno scorso, come invece visto per la generalità del mercato che ha prodotto importanti upgrade valoriali.
Quindi, al netto dei rimbalzi post-Covid, sui bianchi – che valgono a volume il 60% delle importazioni italiane di still wines – c’è un problema piuttosto forte di schiacciamento operato dall’alto, che fa sì che il nostro prodotto rimanga asfissiato nella sua (a patto che esista davvero) ambizione a crescere di valore.
Sul rosso, la situazione competitiva è più aperta e per certi versi favorevole. E’ vero che non si cresce più a volume da ormai un decennio, ma è altrettanto vero che il mercato ha imboccato una strada di graduale aumento valoriale. A livello di competitors, poi, i rampanti produttori del Nuovo mondo si sono autoflagellati. Gli australiani - un tempo non molto lontano veri outsider del mercato, guardati da tutti con ammirazione sconfinata - sono arrivati ai minimi termini del valore: poco più di 100 milioni di dollari, quello che valevano suppergiù 20 anni fa. Strada meno ripida ma anch’essa in declivio quella percorsa dagli argentini e soprattutto dai cileni, che probabilmente distratti dallo scintillio del mercato cinese non si sono accorti di aver percorso un cammino a ritroso, finendo per ritornare alla casella del via come nel gioco dell’oca, e cumulando - coincidenza - lo stesso valore australiano. Gli argentini ricordano invece i proverbiali giapponesi rimasti in trincea a guerra finita: sono inchiodati sulle posizioni conquistate ormai dal 2010, circa 180 milioni di dollari, con però una pericolosa tendenza nell’ultimo quadriennio verso la discesa, senza paracadute del mercato cinese come intanto costruito dai colleghi cileni.
Restano i francesi e gli italiani, i campioni del Vecchio mondo e gli alfieri della territorialità espressa dalla Aop/Dop. I quali al di là delle contingenze (bolle, dazi punitivi, Covid) hanno dimostrato di saper convivere su un mercato premiumizzante e soprattutto, a differenza del Pinot grigio, hanno scavato divari rispetto agli altri competitors ormai abissali, che consentono quella tranquillità necessaria a costruire qualcosa di ancor più positivo e solido negli anni a venire. Privilegiando una strategia di valore a scapito del volume, che ormai sul rosso pare venga più naturale rispetto al bianco.